Giuseppe Fava detto Pippo (Palazzolo Acreide, 15 settembre 1925 - Catania, 5 gennaio 1984) è stato uno scrittore, giornalista e drammaturgo italiano, oltre che saggista e sceneggiatore.

Gli esordi all'Espresso sera

Nacque a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 15 settembre 1925. I suoi genitori Giuseppe ed Elena erano maestri di scuola elementare, i suoi nonni contadini. Nel 1943 si trasferì a Catania e si laureò in giurisprudenza. Nel 1952 diventò giornalista professionista. Iniziò così a collaborare a varie testate regionali e nazionali, tra cui Sport Sud, La Domenica del Corriere, Tuttosport e Tempo illustrato di Milano.
Nel 1956 venne assunto dall'Espresso sera, di cui fu caporedattore fino al 1980. Scriveva di vari argomenti, dal cinema al calcio, ma i suoi lavori migliori furono una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Molti lo avrebbero visto alla direzione del secondo quotidiano catanese, ma l'editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferì un altro giornalista, si disse perché non facilmente controllabile da chi comandava.

Teatro, cinema e radio

Nel periodo in cui lavorò all'Espresso sera, Pippo Fava iniziò a scrivere per il teatro. La sua prima opera, Cronaca di un uomo, è datata 1966 e ha vinto il Premio Vallecorsi. Nel 1970 La violenza conquista il Premio IDI e dopo la prima al Teatro Stabile di Catania è portata in tournée per tutta l'Italia. Nel 1972 è partita la sua collaborazione con il grande schermo, con la trasposizione cinematografica del suo primo dramma: La violenza: quinto potere, che fu diretto da Florestano Vancini. Nel 1975 il suo primo romanzo, Gente di rispetto, è stato messo in scena da Luigi Zampa.
Dopo aver lasciato l'Espresso sera, Fava si trasferì a Roma, dove condusse Voi e io, una trasmissione radiofonica su Radiorai. Continuò a scrivere collaborando con Il Tempo e il Corriere della sera e, soprattutto, scrivendo la sceneggiatura di Palermo or Wolfsburg, film di Werner Schroeter tratto dal suo romanzo Passione di Michele. Nel 1980 il film vince l'Orso d'Oro. Continuava anche l'attività teatrale, iniziata anni prima e culminata con alcune rappresentazioni delle sue opere.

Direttore del Giornale del Sud

Nella primavera del 1980 gli venne affidata la direzione del Giornale del Sud. Inizialmente accolto con scetticismo, Fava creò un gruppo redazionale ex novo, affidandosi a giovani ed inesperti cronisti improvvisati. Tra di essi figuravano il figlio Claudio, Riccardo Orioles, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo, Elena Brancati, Rosario Lanza, che l'avrebbero seguito nelle successive esperienze lavorative.
Pippo Fava fece del Giornale del Sud un quotidiano coraggioso. L'11 ottobre 1981 pubblicò Lo spirito di un giornale, un articolo in cui chiariva le linee guida che faceva seguire alla sua redazione: basarsi sulla verità per «realizzare giustizia e difendere la libertà». Fu in quel periodo che si riuscì a denunciare le attività di Cosa nostra, attiva nel capoluogo etneo soprattutto nel traffico della droga.
Per un anno il Giornale del Sud continuò senza soste il suo lavoro. Il tramonto della gestione Fava fu segnato da tre avvenimenti: la sua avversione all'installazione di una base missilistica a Comiso (poi effettivamente realizzata), la sua presa di posizione a favore dell'arresto del boss Alfio Ferlito e l'arrivo di una nuova cordata di imprenditori al giornale. I nomi dei nuovi editori dicevano poco: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Si trattava di «tipi ambiziosi, astuti, pragmatici», come il figlio Claudio spiegava ne La mafia comanda a Catania. Poi si scoprì che Lo Turco frequentava il boss Nitto Santapaola, e che Graci andava a caccia con il boss.
Inoltre erano iniziati gli atti di forza contro la rivista. Venne organizzato un attentato, a cui scampò, con una bomba contenente un chilo di tritolo. In seguito, la prima pagina del Giornale del Sud che denunciava alcune attività di Ferlito fu sequestrata prima della stampa e censurata, mentre il direttore era fuori.
Di lì a poco Pippo venne licenziato. I giovani giornalisti occuparono la redazione, ma a nulla valsero le loro proteste. Per una settimana rimasero chiusi nella sede, ricevendo pochi attestati di solidarietà. Dopo un intervento del sindacato, l'occupazione cessò. Poco tempo dopo, il Giornale del Sud avrebbe chiuso i battenti per volontà degli editori.

Direttore de I Siciliani

Rimasto senza lavoro, Fava si rimbocca le maniche e con i suoi collaboratori fonda una cooperativa, Radar, per poter finanziare un nuovo progetto editoriale. Praticamente senza mezzi operativi (appena due Roland di seconda mano acquistate grazie alle cambiali) ma con molte idee, il gruppo riesce a pubblicare il primo numero della rivista nel novembre 1982. La nuova rivista, con cadenza mensile, si chiama I Siciliani.
Diventò subito una delle esperienze decisive per il movimento antimafia. Le inchieste della rivista diventarono un caso politico e giornalistico: gli attacchi alla presenza delle basi missilistiche in Sicilia, la denuncia continua della presenza della mafia, le piccole storie di ordinaria delinquenza. Probabilmente l'articolo più importante è il primo firmato Pippo Fava, intitolato I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa. Si tratta di un'inchiesta-denuncia sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci (agrigentino di nascita), Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona. Senza giri di parole, Fava collega i cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto Santapaola.
Nell'anno successivo, Rendo, Salvo Andò e Graci cercarono di comprare il giornale per poterlo controllare, ottenendo solo rifiuti. I Siciliani continuò ad essere una testata indipendente. Continuò a mostrare le foto di Santapaola con politici, imprenditori e questori. Immagini conosciute dalle forze di polizia ma non usate contro i collusi.
Il 28 dicembre 1983 rilascia la sua ultima intervista a Enzo Biagi trasmessa su Retequattro 7 giorni prima del suo assassinio. Raccontava Fava:

«Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante....»
("I mafiosi stanno in Parlamento")

L'omicidio

Alle 22 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava si trovava in via dello Stadio e stava andando a prendere la nipote che recitava in Pensaci, Giacomino! al Teatro Verga. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu freddato da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca. Inizialmente, l'omicidio venne etichettato come delitto passionale, sia dalla stampa che dalla polizia. Si disse che la pistola utilizzata non fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti a stampo mafioso. Si iniziò anche a frugare tra le carte de I Siciliani, in cerca di prove: un'altra ipotesi era il movente economico, per le difficoltà in cui versava la rivista.
Anche le istituzioni, in primis il sindaco Angelo Munzone, diedero peso a questa tesi, tanto da evitare di organizzare una cerimonia pubblica alla presenza delle più alte cariche cittadine. Le prime dichiarazioni ufficiali furono clamorose. L'onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché «altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord». Il sindaco ribadì che la mafia a Catania non esisteva. A ciò ribatté l'alto commissario Emanuele De Francesco, che confermò che «la mafia è arrivata a Catania, ne sono certo», e il questore Agostino Conigliaro, sostenitore della pista del delitto di mafia.
Il funerale si tenne nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia in Ognina e poche persone diedero l'ultimo saluto al giornalista: furono soprattutto giovani ed operai quelli che accompagnarono la bara. Inoltre, ci fu chi fece notare che spesso Fava scriveva dei funerali di stato organizzati per altre vittime della mafia, a cui erano presenti ministri e alte cariche pubbliche: il suo, invece, fu disertato da molti, gli unici presenti erano il questore, alcuni membri del PCI e il presidente della regione Santi Nicita.

Le indagini e i processi

Successivamente, l'evidenza delle accuse lanciate da Fava sulle collusioni tra Cosa nostra e i cavalieri del lavoro catanesi viene rivalutata dalla magistratura, che avvia vari procedimenti giudiziari. L'attacco frontale che la mafia aveva messo in atto nei confronti delle istituzioni non poté passare inosservato. Dopo un primo stop nel 1985, per la sostituzione del sostituto procuratore aggiunto per "incompatibilità ambientale", il processo riprese a pieno ritmo solo nel 1994.
Nel 1998 si è concluso a Catania il processo denominato "Orsa Maggiore 3" dove per l'omicidio di Giuseppe Fava sono stati condannati all'ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D'Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola. Nel 2001 le condanne all'ergastolo sono state confermate dalla Corte d'appello di Catania per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, accusati di essere stati i mandanti dell'omicidio. Assolti Marcello D'Agata e Franco Giammuso che in primo grado erano stati condannati all'ergastolo come esecutori dell'omicidio. L'ultimo processo si è concluso nel 2003 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato Santapaola ed Ercolano all'ergastolo e Avola a sette anni patteggiati.
Sono stati due i pentiti protagonisti del processo: Luciano Grasso e Maurizio Avola. Entrambi sono stati presi di mira da La Sicilia, che ha annunciato il pentimento di Grasso prima ancora che avesse potuto testimoniare contro gli assassini di Fava (poi effettivamente l'avrebbe fatto, ma ad un altro inquirente) e che ha cercato più volte di screditare Avola tramite Tony Zermo. Avola, in particolare, spiegò che Santapaola organizzò l'omicidio per conto di alcuni «imprenditori catanesi» e di Luciano Liggio: nessuno di questi però è stato condannato come mandante.

Fonte: Wikipedia

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