Giovedì, 09 Dicembre 2010 01:00

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La mafia insegue soldi e potere, per questo la sua strada ha sempre incontrato quella degli imprenditori.Sandro riflette sul rapporto tra due associazioni,quella mafiosa e quella degli industriali,che dovrebbero combattersi ma che spesso si intrecciano.

 

Nel corso degli anni, già durante il periodo fascista e sino ai giorni nostri, si sono susseguiti più volte gli appelli dei presidenti delle varie associazioni di industriali siciliani, sia provinciali che regionali, finalizzati ad ottenere una maggiore attenzione da parte del governo di turno al problema del sottosviluppo del meridione. Gli industriali focalizzavano principalmente l'attenzione sulla politica economica del governo centrale e regionale, che generò esclusivamente delle cattedrali nel deserto, causando uno sviluppo parziale e incompleto. Nulla era però detto sulla sottomissione dello Stato ad un fenomeno che sino alla fine degli anni ‘80 era definito semplicemente "brigantaggio", che condizionava indubbiamente l'economia del Sud Italia. L'atteggiamento della classe industriale al problema era di atroce indifferenza, forse perché, nella migliore delle ipotesi, non venne percepita la gravità del fenomeno, palesemente contro gli obiettivi dell'associazione degli industriali; non dimentichiamoci che nulla si sapeva dell'organizzazione della mafia prima delle indagini svolte dal Giudice Giovanni Falcone, in seguito alle dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia. Eppure dal 1980 al 1991 morirono per mano mafiosa almeno sei appartenenti alla classe imprenditoriale palermitana: Carmelo Jannì, Piero Pisa, Pietro Patti, Luigi Ranieri, Libero Grassi e Roberto Parisi, quest'ultimo era stato addirittura membro del consiglio direttivo di Confindustria Palermo nel 1981-1984, ossia sino ad un anno prima di essere ucciso. Volendo indagare sui motivi del silenzio da parte delle associazioni degli industriali, non possiamo ovviamente biasimare coloro che si trovavano in ruoli di responsabilità in un periodo in cui vigeva un pesante clima di paura e di omertà. Ma non possiamo non notare che esistono atti giudiziari che documentano l'atteggiamento opportunistico di molti imprenditori, volto a incrementare i propri guadagni colludendo con ciò che era in realtà la criminalità organizzata. Non è neppure una novità che la mafia ha avuto (e purtroppo ha ancora) palesi legami con il mondo politico-istituzionale; si veda per esempio il caso Andreotti, l'omicidio dell'On. Salvo Lima nei primi anni novanta, oppure il caso Dell'Utri. Per capire il perché del silenzio dell'associazione imprenditoriale nei riguardi della mafia si può certamente prendere come spunto di riflessione il rapporto di interdipendenza reciproca tra l'associazione degli industriali e la classe politica. L'indifferenza si rese palese nel 1991 con l'uccisione di Libero Grassi, un imprenditore tessile che affermò pubblicamente di non volere pagare il "pizzo". Libero Grassi si rivolse all'associazione degli imprenditori per ottenere appoggio,perché aveva ben capito che, se avesse trovato sostegno, avrebbe alzato un muro nei confronti della mafia. La risposta che ottenne fece sicuramente poco onore ad Assindustria Palermo. Libero Grassi fu accusato di fare una "tammuriata", ossia di fare clamore, infangando l'onorabilità degli imprenditori siciliani. Purtroppo, nell'immediato, la morte di Libero Grassi sembrò non svegliare le coscienze, anzi, fu da pretesto per taluni politici, come l'On. Cuffaro, per creare un clima di sospetto verso chi combatteva seriamente il fenomeno. Celebre è infatti l'intervento dell'attuale senatore del PDL alla trasmissione "Maurizio Costanzo Show-Samarcanda", proprio contro il Giudice Giovanni Falcone. Dal 2004 sembra invece che Palermo abbia una nuova coscienza civile, sulla spinta di alcuni giovani che, all'epoca della morte di Libero Grassi, erano solamente adolescenti. Il fiorire dell'associazione Addiopizzo con giovani che ripudiano la mafia e che anzi si impegnano a prenderne e a far prendere le distanze, ha posto le basi per una nuova svolta epocale per la Sicilia. Si parla ancora oggi degli inizi di una vera e propria rivolta culturale. Finalmente sembrò risvegliarsi la coscienza civile dei semplici cittadini siciliani, riuscendo a creare una crepa nel muro di omertà tipico del popolo siciliano; la stessa omertà manifestata anche, a suo tempo, dall'associazione degli imprenditori palermitani. Da Catania è partita poi la svolta epocale di Confindustria. Nell'Estate del 2007 è salito alla ribalta delle cronache nazionali l'imprenditore Andrea Vecchio, presidente dell'Ance (Associazione Nazionale Costruttori Edili) di Catania, facente parte di Confindustria. La ditta di Vecchio, la Cosedil, che stava realizzando dei lavori di edilizia per conto del Comune di Catania, subì tre attentati, di chiaro stampo mafioso, in tre giorni. La vicenda destò molto scalpore anche in seguito alle dichiarazioni dello stesso imprenditore: «Non è possibile andare avanti così. Basta, chiudiamo. Questo è un attacco contro lo Stato; un'altra impresa, nelle mie condizioni, non denuncerà più, pagherà e comprerà la serenità». In quell'occasione lo Stato italiano non ha fatto mancare le dovute tutele all'imprenditore. E ecco il colpo di scena, proprio dalla Confindustria Siciliana. Il Presidente di Confindustria Sicilia, Lo Bello, con l'appoggio del Presidente di Confindustria Nazionale, Montezemolo, dichiarò di espellere dall'associazione chi si sarebbe piegato alla mafia, concretizzando la dichiarazione con una modifica al codice etico di ogni associazione facente capo a Confindustria. Oggi apprendiamo della telefonata intercettata a Milano alle ore 9:27 del 17 febbraio 1988 fra Berlusconi e il suo socio immobiliarista, in cui si deduce chiaramente che anche l'attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, pagava i mafiosi e che, cosa ben più grave, non trovava strano pagare! Berlusconi sarà già Presidente del Consiglio nel 1994, dopo oltre vent'anni di esperienza politica.Anche se la svolta di Confindustria è datata 2007, sembra comunque paradossale che un uomo di Stato, per di più il Presidente, non si fidi dello Stato stesso... forse perché il significato che danno i comuni cittadini alla parola "Stato" è rimasto solamente un concetto "lontanamente" ricordato per sole 55 volte nella Costituzione della Repubblica Italiana. Pezzo scritto da Sandro Scordo per "U cuntu"

 

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